Newsletter
 
 
 
 
       CONTEMPORANEITA'
       SCRITTURE
       POESIA
       RUBRICHE
       SGUARDI
       INTERVISTE
       COLLABORA
 
 
 
 
 
Fernando Botero
   
     
 
 

FERNANDO BOTERO

 

Il pittore colombiano presenta ben 120 fra dipinti, sculture e disegni ai quali si unisce un ciclo di cinquanta opere ispirate alle violenze, recentemente perpetrate in Iraq nella prigione di Abu Graib dai militari statunitensi ai danni dei prigionieri iracheni.

Riportiamo l’intervista rilasciata dall’autore a Germán Santamaria per Il Venerdì di Repubblica:

Cinquanta opere esposte per la prima volta sulle torture nella prigione di Abu Graib, in Iraq. Lo scandalo delle atrocità inflitte dai soldati Usa ai detenuti iracheni fu reso pubblico un anno fa: fino allo scorso marzo, delle 226 inchieste avviate dalle Forze Armate americane sugli abusi in Iraq e in Afghanistan, il settanta per cento era stato archiviato, trentadue militari sono finiti davanti alla Corte Marziale, ottantotto hanno subito sanzioni amministrative…

 

Maestro, com’è nata l’idea di dipingere questa serie di tele sui fatti di Abu Graib?

Sulla spinta della rabbia che ho provato e che ha provato il mondo intero per questo crimine commesso dal Paese che si presenta come modello di umanità, giustizia e civiltà.

Perché dopo aver rappresentato l’orrore della violenza nella Colombia contemporanea, ha pensato di riflettere anche su altre atrocità del mondo?

Nell’arte bisogna sempre rianalizzare le idee, mettere tutto sotto esame. Ho sempre creduto e affermato che, tranne poche eccezioni, la grande arte, si è occupata prevalentemente di argomenti piuttosto piacevoli. Per esempio esistono migliaia di opere degli impressionisti ma non ne ho vista una che rappresenti un tema drammatico. Senza dubbio, situazioni così laceranti come la violenza in Colombia e, oggi, la tortura nel carcere di Abu Graib ti costringono a pensare in un altro modo.

C’è qualche somiglianza tra questi due fenomeni di violenza?

No. Sono situazioni diverse. In Colombia la violenza è quasi sempre conseguenza dell’ignoranza, della mancanza di istruzione e dell’ingiustizia sociale. Mentre quella di Abu Graib è un crimine commesso dal più grande esercito del mondo, violando la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri.

Si aspetta di suscitare qualche reazione politica a livello mondiale?

Non credo. L’arte non ha mai avuto questo potere. L’artista lascia una testimonianza che acquista importanza nel corso del tempo se l’opera ha un autentico valore.

Come crede che la comunità internazionale, in particolare quella statunitense, accoglierà questa sua serie di opere?

Sono nate dalla rabbia di fronte a tanto orrore. Come avrebbero potuto essere accolte non è stata la mia preoccupazione, mentre le realizzavo.

Colpisce la quantità della sua produzione su questo tema. Qual è stato il suo lavoro di ricerca?

Sono insaziabile di notizie, giornali, riviste. E poi, tutti i giorni guardo Internet. Vivo informato. Sono stati molti gli articoli scritti sul caso Abu Graib. In particolare uno bellissimo pubblicato dal New Yorker, che rivelava le condizioni di vita nelle carceri controllate dagli americani. Mano a mano che entravo nell’argomento sentivo sempre più forte la necessità di dire qualcosa su quegli orrori. L’anno scorso ho iniziato a disegnare e dipingere. Ormai, sono quasi cinquanta opere che ho dedicato a questo argomento.

Crede che lavorerà ancora a opere di denuncia politica?

E’ molto probabile. Mi sento sempre più sensibile all’ingiustizia, che mi fa ribollire il sangue.

Oltre alla mostra che verrà presentata a Roma il prossimo giugno, dove saranno esposti questi quadri?

Dopo Roma, andranno a ottobre in Germania. Non ho la minima intenzione di venderli. Li esporrò dove mi inviteranno. Magari persino negli Stati Uniti. Non bisogna dimenticare che la grande maggioranza degli americani condanna la tortura. Coma va ricordato che la stampa di quel paese ha denunciato i fatti accaduti ad Abu Graib.

Germán Santamaria
© Revista Diners

 

top

 
 

Piero Brega cantautore  Come li Viandanti

 
 
..Diceva Ivan Della Mea che quando i cantanti di canzoni popolari si mettono a scrivere canzoni fanno fiasco. E ha ragione. Chiunque cambia deve ricominciare da capo umilmente. Spesso c’è lo sguardo irritato di chi preferisce il prima. E' bello apostrofare il mondo con un canto “oggettivo” se non addirittura “collettivo”, ben protetto dai documenti originali. Non per questo inventare è tradire le consegne, affogare nella vanità.
Il quesito tradizione-innovazione si è posto da subito, e si esprimeva come una riluttanza ad intervenire anche marginalmente a modificare la forma dei canti tradizionali. Ma anche senza volere, anche nella sola imitazione c’è una sorta di telefono senza fili, un rumore di fondo che cambia, e poi nuove utilizzazioni ed esiti. Inoltre, storie nuove accadono nella realtà che si modifica, e ciò senza provocare alcun passo indietro.
Gli intoccabili documenti sono canzoni vive, casomai è proprio la liturgia che mummifica.
Alla Magliana i compagni in lotta improvvisavano strofe: descrittive, filosofiche, di incitamento. Queste strofe prima non c’erano, ora ci sono. Al Campidoglio la tarantella dei baraccati incitava al ballo per vincere il freddo, per l’autodeterminazione, per chiedere con ironia la grazia di un alloggio. In un’altra occasione arriva un compagno di borgata e racconta la storia di un incidente stradale ove ha trovato la morte un amico. E’ una storia marginale di una strada dove non c’è ancora il cartello di fermata del bus, in quel particolare luogo della città, dove su strade extra urbane si formano agglomerati abusivi. Scritta la canzone ti fermi e ci pensi, sono canzoni che nessuno conoscerà, ma servono a me. Perché non continuare a scriverle? Perché non farle interagire? Risponde Kounellis per me: ”Ho la necessità di avvicinare il segreto dramma originario dal quale si è dipanata la mia vita avventurosa”. In quanto a me direi piuttosto “vita inquieta”, ma con il dramma originario sono d’accordo.

Sono nato Roma nel 47 e ho cominciato a strimpellare la chitarra quasi subito perché mi meravigliò il suono di una corda pizzicata per curiosità, stando in piedi su una sedia poggiata su un tavolo, col braccio alzato tanto da sfiorare la chitarra che il cugino spagnolo aveva lasciato sopra l'armadio. L'eco di quel suono non s'è spento ancora. Amavo le belle canzoni, pensiero e forma di altre e lontane realtà. Arrivò la beat generation, Bob Dylan, i Beatles, gli Stones, e così via. Si usava tra ragazzi il ricalco del pop. Si faceva su e giù con la puntina sul vinile, per carpire un passaggio o un accordo. Poi lo si confrontava con i numerosi chitarristi, che allora costellavano la cerchia degli gli amici, dei compagni di scuola, dei parenti. E così, con la costruzione meticolosa di ogni dettaglio, un gruppo di amici a cercare in ogni brano un piccolo mondo sonoro, così è cresciuto il mio amore per il pop.
Ero uno studente geometra e facevo chilometri in autobus con chitarra e amplificatore, andavo dall'altra parte della città a chiudermi in una cantina a suonare.

Più grandicello eccomi sferragliare interminabili cantate antologiche. Sono diplomato, anzi ho faticosamente sbiennato a ingegneria e mi appresto a traslocare ad architettura, meta ambita ma sinora vietata perche non vengo dal liceo. Appena sbarcato a Valle Giulia incontro il movimento, le manifestazioni, le lotte, ricordo un gelido dodici dicembre a Milano un anno dopo a manifestare tra due ali di polizia, e poi e poi. Conobbi un certo Carlo Siliotto, a una festa suonai “Salty dog” dei Procol Harum e Carlo mi chiese se pensavo di lavorare suonando, dissi di si, “Un gruppo di musica popolare”, disse, e “ok”, risposi, e tradii la facoltà tanto agognata, ma era un reato che ci vedeva complici, ed in cuor nostro avremmo detto allora che era solo una pausa. Intanto si poteva togliersi da casa dei genitori. Mi portò da Alessandro Portelli, e da Sandro ascoltammo una selezione di canti, accompagnati da strumenti vari, di canzoni contadine del Lazio. C’era rappresentata anche la canzone romana ma nulla a che vedere con il popolo immaginario che si magnificava nelle canzoni di Gabriella Ferri, unica epigona del genere che avesse colto il senso, meglio comunque del reuccio. Manca del tutto l’odore di dolcificante. Era anche canzone politica, era “comunisti della capitale”, o erano gli stornelli, i più sarcastici e belli che avessi mai sentito. Poi le parodie. Ormai ero nel sacro fuoco, e diverse volte, in seguito, si andò insieme a registrare .

Si apre così, davanti al giovane studente di architettura melomane e incantato, il mondo pastorale e contadino.
Quella musica mette in risonanza un mondo sonoro che lui sembra conoscere già, che sente da qualche parte dentro, oltre che davanti ai suoi occhi. Il giovane, aspirante poeta, identifica questo mondo come la "verità". Finalmente le radici sono li, apparentemente inesauribili e gli chiedono di ascoltare.

Portelli trova il nome “Canzoniere del Lazio”: alcune regioni hanno infatti intitolato gruppi musicali di riproposta delle canzoni di tradizione orale. C’è il Canzoniere Veneto, ecc. e c’è il Canzoniere Italiano, che raccoglie l’esperienza di quelli che prima di noi si sono avventurati. Siliotto teorizza la riappropriazione della cultura da parte del tessuto sociale che storicamente l’ha prodotta. E' un'idea grandiosa.

Nel 1973 incidiamo a Milano una piccola antologia di brani popolari dal titolo: "Quando nascesti tune” per le ed. Del Gallo.

Importante sintomo della nuova direzione urbana ed elettrica della musica popolare italiana è lo spettacolo "Fare Musica", con la partecipazione di Giovanna Marini con la ballata "L'Eroe", e di altri autori come Paolo Pietrangeli e Gianni Nebbiosi, mentre il Canzoniere del Lazio propone il repertorio popolare e condivide con il gruppo rock "Albero Motore" la funzione di supporto orchestrale. Da tale esperienza resta il disco di Gianni Nebbiosi per Ricordi e il disco di Giovanna Marini "L'Eroe" per le Edizioni del Gallo.

Nel 1974 il CdL s'ingrandisce, per sottolineare l'inurbamento della cultura popolare. Agli strumenti tradizionali quali chitarra, organetto, violino, percussioni, si aggiungono quelli propri della cultura urbana: sassofoni, batteria, basso…
Si scelgono alcune strofe a carattere rituale, canzoni pastorali, balli, tentando un arrangiamento che trascini la musica di tradizione orale in un suono pop e rock. Dal '74 al '77 con il Canzoniere del Lazio Piero Brega incide due dischi: “Lassa sta’ la me’ creatura” e “Spirito bono” (Intingo Records, distr. Ricordi).

La vocalità ed i modi compositivi popolari divengono oggetto della stessa analisi del pop inglese. Ma se prima era un variopinto rompicapo collettivo, ora è un viaggio nel tempo, nella storia, nella politica. Il contesto di ogni brano, il significato del testo in senso stretto, il legame con la situazione rituale e reale in cui il brano viene eseguito ed utilizzato offrono un punto di osservazione al giovane poeta.
Così, ad esempio ho utilizzato l’ottava epica, un modello di metrica del racconto tramandata dai poeti a braccio. Ho praticato l’endecasillabo, la chiave di volta della poesia italiana da Dante a Pasolini, l'ho fatto incautamente, da giovane, in un percorso del tutto empirico e improvvisato.

Dal programma “Un certo discorso” di radio tre si accorgono di me e mi danno fiducia e coraggio: servono canzoni, e una addirittura dall’oggi al domani. Non avevo sino ad ora scritto su commissione, sto tornando a casa a piedi, e penso a me stesso nella tranquilla strada di casa, la mia città diventerà, per tutto il silenzio seguente, il libro che custodisce il mio mondo segreto.

Nel '78 esce il disco “Malvasia” (Fonit Cetra) con il trio “Piazza Giannattasio Brega”, e Nel '79, “Carnascialia” (Polygram) con Pasquale Minieri e Giorgio Vivaldi, nel quali compare "Canzone numero uno", una tarantella che riporta alla vita e alla speranza un uomo stanco e sfiduciato, quale ero in quel momento.

Comincio a fare la fila alla Fonit a Roma, porto un nastro alla Polygram a Milano per cercare di pubblicare un disco di canzoni; ma non va. C'è un bell'articolo di Franco Fabbri degli Stormy six, su Diario dell'11 giugno 04. Si parla del concerto per Demetrio Stratos del maggio ‘79 all'arena civica di Milano. Franco Fabbri ha colto in pieno la sensazione di fine di un periodo. "Si annuncia, insieme al grave lutto per Demetrio, il funerale del movimento politico e musicale degli anni settanta".

Nell’81 ancora con Giovanna Marini canto nel ruolo del protagonista dell'opera "Il regalo dell'imperatore" facciamo, con una banda ed un coro, un lungo tour in Francia concluso con quaranta repliche a Parigi al teatro "Buffe du Nord" di Peter Brook. Da questo lavoro è tratto il disco omonimo edito da "Chant du monde".
Poi il teatro di ispirazione popolare di Quartucci, La Zattera di Babele, dove si richiede repertorio popolare, a volte canto senza accompagnamento musicale, a voce nuda, in certi templi tedeschi della musica colta.
Ho incontrato intellettuali e artisti, Michele Straniero, Jannis Kounellis, Carlo Quartucci, Renato Mambor, Roberto Clerici, lo stesso Demetrio Stratos; tutti mi spingono a continuare. Ma si diradano le occasioni per lavorare con le canzoni. Maledetta la chitarra e tutto il resto. Non dovevo laurearmi in architettura? Un tavolo da disegno mi consolerà? Forse si. C’è uno studio di architettura che mi assume a ore. Sorge la moschea di Roma. E io disegno e disegno, e intanto, la sera scrivo canzoni sulla città dentro di me.

Nel 1991 riprendo a suonare con l'amico musicista Adriano Martire proponendo uno spettacolino di canzoni per un duo di chitarre.
Nel 1994 c'è un occasionale ritorno alle canzoni con la proposta di Carnascialia ed Alma Megretta insieme in "Contagio", poi lentamente qualcosa si muove. Nel '96 facciamo un trio di chitarre acustiche e voci: Piero Brega con Adriano Martire e Luca Balbo, poi fuggito e sostituito da Maurizio Musi; il lavoro prosegue e noi stiamo suonando una sera della primavera del ‘98 a Santa Marinella per l’inaugurazione di un bar. Siamo per strada, non fa caldo e c’è qualche affezionato fan e/o passante, che ascoltano.
C’è un tipo, un certo Peter Quell, che vuole inventarsi produttore discografico e ci propone di registrare un disco. Andiamo alla sala O.A.S.I. di Paolo Modugno, un musicista votato a registrare. Si, ci conosciamo da vecchia data. Iniziamo. Cosa fare? Con Adriano Martire cerchiamo di pianificare il lavoro. Come ai vecchi tempi, mettiamo un clic e facciamo due piste oneste di voce e chitarra e poi le mandiamo in cuffia, quindi cominciamo con le basi ritmiche. Ci vuole un contrabbasso. Siamo lì a ragionare e negli intervalli salta fuori in pochi giorni “Nel giardino delle persiche“. Adriano Martire scandisce l’ottava “Quando so’ morto copreme de pizze” in cinque quarti. L’antica ottava rima si colloca, perfettamente a suo agio, nel tempo dispari. Misteri dell’antico endecasillabo. Bisognerà trovargli un posto nel disco. Ma non era il disco di un cantautore? Si, ma sempre malato di musica popolare. Il primo arrangiamento, un ballo sardo con le parole di “ Su patriota sardo a sos feudatarios” trova subito posto nel doppio cd del Bosio “Vent’anni e più…”. il Circolo Gianni Bosio mi riapre le braccia e Portelli è sempre li sorridente che dice: sei er meio. Che vuoi di più.

Mi rivolgo ai musicisti che conosco, ci vorrebbe la voce di un sax, andiamo a parlare con Checco Marini, “Ma chi scrive gli arrangiamenti?”, chiede. “Non lo so, non pensavo ci fosse bisogno, puoi suonare quello che vuoi, sentirai, il pezzo è semplice”. “No, non si fa così, dovete trovare qualcuno”. Andiamo da Enzo Pietropaoli che ho conosciuto anni prima da Roberto Gatto. Lo ricordavo bravo e serio. E non ho sbagliato. Intanto io Peter andavamo un po’ brancolando con la Rita Marcotulli che intanto lavorava su “Sali sole” e “Tuscolana”.
Entriamo in sala ed Enzo si fa in quattro: scrive le parti, dirige, arriva con elaborazioni che ha fabbricato a casa per farci perdere meno tempo. Il tempo è denaro e maggiormente in sala di registrazione. Cerco di fare del mio meglio a cantare e intanto scrivo “San Basilio”, un aneddoto della ipotetica vita del santo vescovo di Cesarea nella Palertina romanizzata del terzo secolo tramandato dalla “leggenda dorata” di Iacopo da Varagine.
Mi sono sempre chiesto la storia del nome del quartiere. Del Re cantava dello sgombero delle case occupate a San Basilio e gridava il suo nome in un modo troppo evocativo perché io non mi incuriosissi. L’argomento è il perdono, o meglio la storia di una donna peccatrice.

Ma il tempo passa, il disco non finisce mai, non si vende, nessuno lo vuole. Cominciamo i mixaggi, i brani sono splendidi, tutti hanno fatto un lavoro ottimo. Intantp ho scritto altre canzoni, “La signorina”, “Autoritratto”,e altre; c'è già il materiale di un altro cd, ma c’è qualcosa di incompiuto che mi pesa nella schiena. Somatizzo le difficoltà dei miei due lavori, Sono a letto immobilizzato con un‘ernia del disco. Mi guardo intorno, manca ancora qualcosa, le mie canzoni hanno avuto un’ottima piccola orchestra che le ha valorizzate a dovere. Mi sembra l’ora di ritornare al piccolo, al non arrangiamento, a suonare dal vivo in sala, con pochi strumenti. Un uomo maturo, che cammina con difficoltà nella piccola oasi dove un amico dietro al mixer l’ha visto partire tanti anni fa. E lì, col contrabbasso di Pietropaoli e la chitarra di Michele Ascolese ho registrato ancora una volta in presa diretta le due canzoni simbolo per me di ogni caduta e risurrezione: “Tuscolana” e “Sali sole”. Ora il lavoro è veramente al termine. Al centro di una sapiente architettura orchestrale c’è una nuda polpa emotiva, che lascia avvicinare di più l’ascoltatore. Il disco c’è, ecco che lo presento:
COME LI VIANDANTI: disco di canzoni di Piero Brega, Prodotto dal Circolo Gianni Bosio e dal Manifesto, produzione artistica di Peter Quell, arrangiamenti di Enzo Pietropaoli e collaborazione di insigni musicisti:
Enzo Pietropaoli (contrabbasso), Danilo Rea (pianoforte), Michele Ascolese (chitarra), Antonello Salis (fisarmonica), Paolo Fresu (tromba), Ambrogio Sparagna (organetto), Roberto Gatto (batteria), Nando Citarella (tammorra), Marcello Sirignano (violino), Gabriele Coen (clarinetto), Antonello Ricci (zampogna calabrese e canto), Elio Rivagli (batteria), Fulvio Maras e Piero Fortezza (precussioni) e altri ancora. Ne è risultato un disco ricchissimo e imprevedibile in cui la mia voce è, speriamo, all’altezza. Canzoni con i piedi sulla terra della tradizione e la testa nel cielo iridescente del cantautore.

Fonte: CIRCOLO GIANNI BOSIO   [www.circologiannibosio.it]

 

top

 
 

MILAGRO ACUSTICO  Poeti Arabi di Sicilia, arte da amare

 

I beduini sono i più fedeli nelle contrarietà e nelle passioni.
Assicurano i viaggiatori della stirpe di A’wag e Shadqam accompagnandoli nelle regioni deserte e selvagge dove ulula il lupo e piange la gazzella.

 

Mi lascio accompagnare dal Milagro nel viaggio acustico, mi fido, ma di li a poco eccomi preso, schiavo.
Una voce unghia, rossa come il mare nera come gola e lampeggia il cielo ovunque come lampeggiano le spade nell’aria, lampeggia la terra tra lacrime di luce.
Limoni, agrumi, foglie al sole mosse dal vento, strumenti, fiato e corde…potrei lasciarvi qui…
Ma notte e giorno si susseguono da millenni, rapaci lunari nelle visioni dell’esilio.
Voci nuove, carne di corpi rettili si inebriamo nell’andamento. Come edera attorno a giovane tronco.
Terra amata, che il tuo canto si ascolti ancora, ululi il lupo e pianga la gazzella, che il vostro Dio beva di gioia dolceamara.
Un pozzo rovesciato, un fuoco sonoro, sulle macerie del tempio una vigna, calma e serena vicina di calore.

Noi restiamo a fare la retroguardia per spingere in avanti quelli che avanzano e ritardare la morte nelle retrovie.

Arte d’amore.

 
 

I Milagro Acustico si sono formati a Roma nel 1995. Le caratteristiche fondamentali della loro musica sono la ricerca di sonorità originali radicate nella tradizione musicale del bacino del Mediterraneo, l’utilizzo di poesie del Medioevo utilizzate ed adattate come testi, un organico strumentale di altissimo livello, variabile ed ampio. Nei concerti poesia, musica e danza si fondono e si susseguono creando uno spettacolo intenso e coinvolgente. L’ensamble, guidato dal polistrumentista Bob Salmieri utilizza solo strumenti acustici originali, quelli della tradizione musicale Mediterranea come chitarra acustica, baglama, mandolino, tambur, ney, kaval, daf, darbuka, gong etc.

Poeti Arabi di Sicilia è un progetto ispirato alle poesie dei poeti Arabi nati e vissuti in Sicilia durante la dominazione islamica dell’isola avvenuta a cavallo dell’anno mille, dall‘827 con la presa di Mazara del Vallo fino all’arrivo dei Normanni nel 1091. Le poche testimonianze rimaste della vasta produzione poetica, lascia trasparire l’amore sconfinato per la Sicilia, per la sua gente, per la natura. Particolarmente toccanti sono i versi di poeti come Ibn Hamdis che a vent’anni si trova a vivere nel periodo della riconquista Normanna e costretto a lasciare la Sicilia per l’esilio, compone fino alla sua morte versi appassionati pieni di rimpianto. Poesia e musica si ricongiungono come nelle origini dato che è proprio nella Sicilia della riconquista che affondano le radici della scuola poetica italiana (le poesie sono state tradotte dall’arabo al siciliano grazie alla collaborazione della scrittrice Daniela Gambino e di Sharifa Hadj Sadok).

Altro motivo che spinge i Milagro ad affrontare questo lavoro è l’evidente parallelismo del nostro tempo con il Medioevo delle Crociate e delle guerre di religione: “anche in quel periodo la religione veniva usata come pretesto, l’altro era visto come una minaccia e l’unica via possibile sembrava la guerra e lo scontro frontale. Per nostra fortuna, personaggi illuminati come Federico II di Svevia, dimostrarono quanto sia più efficace la diplomazia delle armi. Da qui l’idea di partecipare alla diffusione della cultura del Mediterraneo, cercando di riportare alla luce i tesori del nostro retaggio poetico-musicale che ancora oggi soffre per intransigenza e oscurantismo”.

 
 
 

Hanno partecipato alla realizzazione dell’album:

Francesca Brilli – Voce
Simona Ferriera – Voce
Fabio Dell’Armi – Voce, chitarra, cajon
Sharifa Hadj Sadok – Voce Araba
Daniele Gongiaruk – Voce recitante
Donatella Ciraolo – Voce soprano
Giorgio Pompeo – Tromba, voce
Andrea Pullone – Chitarra, baglama
Piero Piciucco – Contrabbasso, mandolino
Carlo Colombo – Percussioni
Gianfranco Dezi – Tromba, flicorno
Luigi Marino – Zarb, daff
Bob Salmieri – Alto sax, clarinetto, flauti, udu, piano, baglama, percussioni
Volkan Gocer – Kaval
Turker Dinletir – Ney

Musiche e testi a cura di Bob Salmieri

Discografia:

Il loro esordio discografico risale al 1998 con il CD autoprodotto Onirico. Il progetto successivo I storie o’ Cafè di lu Furestiero del 2002 ha la fortuna di trovare una etichetta USA che lo distribuisce e promuove oltre oceano, così come l’album del 2004 Rubaiyyat of Omar Khayyam ispirato alle quartine del celebre poeta e scienziato persiano del XI secolo, riscuotendo un successo di critica e di pubblico inaspettati. Nel 2005 comincia la collaborazione con l’etichetta discografica italiana Compagnia Nuove Indye per Poeti Arabi di Sicilia.

Altri progetti:

2005 – Pubblicazione del libro di racconti I storie o cafè di lu Forestiero.

 

[www.milagroacustico.com] . [www.cnimusic.it/poetiarabidisicilia.htm]

 

top

 

 

Jenny Saville

 
 

[www.gagosian.com/artists/jenny-saville]

 

top

 
   
   
   
   
     
www.progettopane.org . copyright © 2011 [1280 x 800]